Sirene è la nuova fiction Rai, il cui tema principale è
facilmente intuibile dal titolo. Lo sceneggiatore di Sirene, Ivan Cotroneo
(regista anche di Un Bacio, qui la recensione), è uno che in televisione ci ha
visto lungo: dalla sua penna saltano fuori Tutti Pazzi Per Amore, un’adorabile
commedia familiare in stile musical, ed È Arrivata La Felicità, una delle
fiction migliori che io abbia mai visto, di cui aspetto con ansia la seconda
stagione – e che consiglio veramente a tutti di guardare, ve ne innamorerete.
Nonostante avesse già sperimentato l’irrealismo in Tutti
Pazzi Per Amore – tramite un personaggio deceduto che narrava le vicende dall’aldilà
– qui Cotroneo si butta sul fantasy pesante e decide di parlare delle sirene,
localizzandole – come è giusto che sia, a Napoli. Il primo difetto, se così vogliamo
chiamarlo, della serie è proprio l’ostacolo dato dall’incentrare la storia su
creature mitologiche decisamente poco utilizzate nei media: non avendo
riferimenti mediatici e popolari da cui attingere (come accade con i vampiri,
ad esempio), le abitudini e le caratteristiche delle sirene sono state
inventate di sana pianta e con poca attenzione ai dettagli, per cui spesso si
scade nel banale o peggio si cade in evidenti buchi di trama. Personalmente non
considero la cosa un gran problema, se avessi voluto guardare un documentario
sulla leggenda delle sirene l’avrei fatto, però pur essendo in Rai mi sarei
aspettata una ricerca e una continuità più accurata.
La fotografia è un’altra cosa che
non ho apprezzato: Napoli è una città meravigliosa, piena di colori e di scorci
suggestivi, e proprio perché ho riconosciuto nella serie i luoghi che vedo ogni
giorno so che si poteva fare decisamente di meglio – piccolo esempio: la
stazione metropolitana di Toledo, mostrata nella scena all’inizio, un luogo che
offre mille spunti mostrato come se fosse un posto qualsiasi (ma essendo che il
tema della stazione è proprio il mare, mi aspetto che venga mostrata in maniera
migliore nelle prossime puntate). In tante scene ho avuto l’impressione che
stessero sprecando l’occasione di riprendere qualcosa di bello, tant’è che
avevo voglia di gridare alla tv “gira la
camera di là! Aggiusta le luci! Quel posto è così bello e lo stai inquadrando male!”. Sugli effetti
speciali non ho granché da dire, sicuramente dignitosi per una serie del genere
(a parte un paio di eccezioni) e le scene sott’acqua mi sono piaciute molto.
I personaggi, specialmente quelli
umani, sono parecchio stereotipati (Argentero il fessacchiotto della
situazione, Gallo l’uomo zerbino, ecc.) così come le sirene che con la loro
misandria a volte sono decisamente troppo, ma comunque trovo l’idea di
rovesciare i ruoli – sirene autoritarie, uomini succubi abbastanza simpatica.
Posso quindi dire che mi aspettavo
un prodotto dalla qualità decisamente migliore, ma in sintesi Sirene va presa
per quella che è, una serie molto leggera e alla mano, ottima per occupare un’oretta
e mezza alla settimana senza fare grandi analisi televisive e sociali. C’è un
po’ di trash consapevole (specialmente nel personaggio di Maria Pia Calzone), a
volte si scade nel banale, ma se non la si prende troppo sul serio è
godibilissima. Anche se si può sempre migliorare e spero lo faccia, nelle
prossime puntate.
Probabilmente l’unica cosa davvero
orribile è il finto accento napoletano di Luca Argentero. Terrificante.
Suburra – La serie, presquel dell’omonimo film, è uscita da
qualche settimana e praticamente mezzo popolo italiano l’ha binge-watchata
(passatemi l’inglesismo), e già questa è una grande vittoria per la nostra
serialità: dopo Romanzo Criminale e Gomorra, alle quali ogni serie verrà sempre
e inevitabilmente paragonata, siamo stati capaci di creare un’altra serie di
genere con un certo impatto mediatico e popolare, ma soprattutto di qualità –
per trama, recitazione, regia, sceneggiatura, tutto.
Adesso non
voglio perdermi in lusinghe inutili, perché se dovessimo approfondire Suburra
ha sicuramente la sua dose di difetti, ma anche perché non è questo l’argomento
del post.
Ciò che
Suburra ha e che le altre serie italiane (ma anche internazionali, a dire il
vero) non hanno è la presenza di Spadino, un personaggio dichiaratamente gay –
per il pubblico più che per i personaggi della serie, dove tutti lo sanno ma
nessuno ne parla – in un ambiente telefilmico e cinematografico dove i
personaggi LGBT vengono rappresentati marginalmente e come “macchiette” oppure
non vengono rappresentati affatto, ovvero quello della criminalità organizzata.
Ritornando al paragone con Gomorra, ho un vago ricordo di un ragazzino transgender
che viene freddato entro la fine della puntata; c’è anche la fidanzata del boss
Salvatore Conte, donna transessuale che ricordiamo per l’iconica scena che qualsiasi abitante dell’entroterra napoletano continua a imitarecompulsivamente dopo due anni dalla sua messa in onda (ve lo giuro). Il primo
un espediente narrativo che, appunto, si esaurisce nel giro di una puntata; il
secondo un personaggio dalle nobili intenzioni narrative, cioè il desiderio di
condurre una vita di coppia normale, ma che ha avuto l’impatto opposto nell’immaginario
collettivo popolare – po po po po.
In Romanzo
Criminale c’era Ranocchia, un personaggio molto marginale, né particolarmente
positivo né particolarmente negativo, dagli atteggiamenti effemminati che i
membri della banda spesso e volentieri prendevano in giro.
Spadino si
inserisce in un ambiente inedito al pubblico italiano: il fratello minore del
boss di uno dei clan criminali più potenti di Roma, forzato in un matrimonio
combinato con una donna ma chiaramente innamorato di un suo partner-in-crime,
il figlio del boss di un clan nemico – e qui le allegorie su Romeo e Giulietta
si sprecherebbero, ma ricordiamoci che questo è un blog di recensioni serie.
Più o meno.
Spadino vive
questa sua sessualità tutt’altro che con tranquillità e spensieratezza, ma ciò
non impedisce al personaggio di crescere, evolversi e agire in altri ambiti.
Insomma, la serie è così piena di sottotrame che di Spadino innamorato di
Aureliano, mentre guardiamo la serie, non ce ne può fregar di meno. Viene tutto
mostrato, nulla viene lasciato all’interpretazione personale (come fanno molte
serie americane e inglesi, fin troppe a mio avviso), ma ciò non è assolutamente
centrale e rilevante ai fini della trama principale. Ed è normale che sia così,
perché il fulcro di Spadino, così come degli altri personaggi, è che è un
criminale, non un omosessuale, e soprattutto non una “macchietta” – se a
Spadino gli urli frocio per strada, come minimo ti sgozza con il suo coltello.
E adesso
passiamo all’altro lato della medaglia. Aureliano nella serie ha amato una
donna (e un’altra ancora nel film, ammesso e concesso che la serie decida di
essergli fedele) e non ricambia i sentimenti di Spadino, quindi tutto ci fa
presupporre che sia eterosessuale. Aureliano è il figlio di un boss quando
inizia la serie, nel film invece lo vediamo già a capo del clan di famiglia, e
a mio avviso, in entrambe le opere, è caratterizzato come il personaggio più
violento tra tutti. Nella serie, Spadino è l’unico amico di Aureliano ed è l’unico
che più o meno, con le dovute differenze, condivide la sua visione del mondo.
Aureliano è anche carnale nei confronti di Spadino, ci tiene a lui, se il
secondo lo abbraccia lui non si tira indietro, canta e si diverte e altre coseche chi ha visto la serie sa. E quando le cose tra i due precipitano, lui
potrebbe andare a cercarlo e ucciderlo subito, ucciderebbe per molto meno (e
chi ricorda il film sa di cosa sto parlando) ma no, non lo fa fuori.
Ora, questo
può significare tutto o niente, però penso che in un’eventuale seconda stagione
ci siano i presupposti per creare qualcosa di nuovo e rivoluzionario, tutto sta
alla piega narrativa che si deciderà di prendere – e anche un po’ al coraggio
degli autori, che hanno iniziato a perseguire una strada, quella della
rappresentazione LGBT nelle serie di genere, in una maniera eccelsa, e che
potrebbero continuare. Non sono il tipo di persona che in una serie si
fossilizza sulle relazioni romantiche o sessuali dei personaggi, ho sempre
preferito vedere le cose nel complesso, finché la serie è scritta e girata così
come ci ha abituati dalla prima puntata, del rapporto tra Spadino e Aureliano
posso tranquillamente farne a meno.
Ma
ricordiamoci, però, che questi personaggi potrebbero esistere, o forse esistono
già – e non parlo del ragazzo che si innamora di un amico, ma di una fluidità
sessuale e romantica che esiste nelle persone “normali” e non c’è motivo per
cui non possa esistere in un criminale. I presupposti ci sono e queste persone
esistono. Rappresentatele.
Come penso sia ormai noto al pubblico di internet, Netflix
ha rilasciato in questi giorni il film Death Note, tratto dal celeberrimo manga
giapponese che, se avete attraversato la fase giappominkia nella vostra
pre-adolescenza, non potete non aver letto – o visto l’anime che ne è stato
tratto. La fase giappominkia l’ho attraversata anche io, e lessi Death Note
nell’estate che credo anticipasse la terza media, durante una vacanza a Ischia
dove il mio interesse a passare tempo di qualità con la mia famiglia era
pressappoco pari a zero, con le scansioni rigorosamente scaricate da ForumFree
e accuratamente trasferite nella galleria del mio Nokia 5300. Già allora
giravano voci sull’acquisizione dei diritti cinematografici da parte della
Warner Bros con l’intenzione di farne un film diretto prima da Shane Black, poi
si è detto da Gus Van Sant, ma evidentemente le cose hanno preso una piega
diversa e adesso ci ritroviamo con un film di Neflix diretto da Adam Wingard,
già regista di vari film tra cui un magistrale The Guest e il sequel di The
Blair Witch Project.
Vi avviso che in questa recensione ci saranno spoiler e non
avete il diritto di lamentarvene, considerato che l’opera originale è uscita un
bel po’ di anni fa e che è inaccettabile che non abbiate avuto una fase
giappominkia in cui avreste dovuto farvi una cultura a riguardo – detto con
tono ironico, ma non troppo. Death Note è in realtà una grande opera, forse uno
dei pochi anime giapponesi ad aver raggiunto un successo tale da esser stato
visto anche da gente che per anime e manga non aveva interesse alcuno, e
immagino che ciò sia accaduto per la potenza della storia dove tutto viene
basato sulla sottilissima linea tra bene e male, tra ciò che è giusto e ciò che
è sbagliato. Questo è il nodo centrale attorno a cui si sviluppa tutto e
vengono costruiti i due personaggi principali, lo studente modello Light Yagami
(nel film Light Turner) e il detective L. Il grosso problema sta nel fatto che
questo nodo centrale è esattamente ciò che viene a mancare nella trasposizione
cinematografica americana.
È chiaramente ovvio che portando un’opera dal Giappone all’America,
dall’animazione al live action, certe cose vadano inevitabilmente a perdersi.
Tra i due paesi c’è un gap culturale enorme ed è giusto che un’opera venga
trasposta in base alle consuetudini del paese a cui essa è destinata, per cui è
chiaro che molte svolte nella storia e molti tratti marginali dei personaggi
vengano modificati o eliminati del tutto – anche considerando che Death Note è
un’opera lunghissima e anche un po’ ripetitiva, e per trasporre fedelmente
tutto ciò che viene mostrato su carta non sarebbe bastata neanche la durata
totale della trilogia de Il Signore Degli Anelli.
Ciò che però non è giusto è stravolgere la caratterizzazione
dei personaggi al tal punto da renderli completamente diversi da ciò che erano
in partenza, dando vita a una rappresentazione che sembra quasi una caricatura.
A questo punto non è più giusto chiamarlo “adattamento”, ma piuttosto bisognava
definirlo “liberamente ispirato a”. Andiamo quindi a decostruire questi
personaggi, cercando di trovare il nesso tra quelli originali e quelli adattati
per il film.
Mia (nel manga Misa Amane) è la ragazza di Light Turner che,
quando lui riceve il quaderno della morte, lo appoggia e lo incoraggia nella
sua operazione di “pulizia” dei criminali. Il primo grosso errore nella
caratterizzazione di Mia è visibile già dall’inizio: Mia conosce Light che gli
mostra il quaderno della morte (cosa che Light Yagami non avrebbe mai fatto, in
quanto prudente e calcolatore, ma ci arriveremo dopo), si innamorano e iniziano
a ripulire il mondo dai criminali, insieme. Ciò che viene mostrata allo
spettatore è una complicità tra i due, un amore reciproco, un Light in funzione
di Mia che segue i suoi consigli e cerca di tenerla stretta a sé – nel manga è
esattamente il contrario, è Misa ad essere in funzione di Light, è
completamente asservita a lui che la manipola per raggiungere i suoi scopi,
facendole credere di ricambiare il suo amore ma in realtà non curandosene
affatto. Il film ce li mostra come due partner in crime, ma in realtà Misa
Amane è quanto di più simile a un’Harley Quinn giapponese, persa d’amore per il
suo uomo e che fa tutto ciò che lui le comandi. Ma analizzando bene il
carattere di Mia, si può notare che la sua personalità è molto più simile a
quella del Light originale di quanto sia quella del Light mostratoci nel film:
è lei a suggerire chi uccidere, è lei che è fermamente convinta di fare del
bene ed è sempre lei che mostra segni del “complesso di Dio” che nel manga è un
chiaro tratto del personaggio di Light.
Partiamo proprio dal “complesso di Dio” per parlare del
personaggio di Light. Il credersi superiore a chiunque altro, il salvatore dell’umanità,
è il tratto preponderante di Kira, che è fermamente convinto delle azioni che
sta compiendo perché sono in funzione di un’idea precisa: lui è un Dio e quindi
può permettersi di punire chiunque, e quest’idea ricorre per tutta l’opera e
non lo abbandona mai. Questo aspetto non è stato abbastanza approfondito dal
film, che l’ha accennato nella scena in cui lui illustra il significato di “Kira”
a Mia, ma che nella realtà dei fatti non ci viene mostrato neanche una volta.
Light Turner è un ragazzino insicuro, confuso, che riceve il quaderno della
morte dal dio Ryuk e comincia a usarlo senza rendersi effettivamente conto di
ciò che sta facendo e addirittura pentendosene in vari punti del film, ma non
volendo riconsegnare il quaderno a Ryuk perché “qualcuno potrebbe fare di
peggio” – insomma, scusate il francesismo, è un po’ un coglioncello. La realtà
è che Light Yagami è non solo un perfetto stronzo, ma anche un sociopatico in
piena regola, un freddo e meticoloso calcolatore che sta attento a ogni suo
passo pur di non essere sgamato perché deve continuare ciò che ha iniziato, lui
è Dio ed è perfettamente consapevole di ciò che fa e di avere tra le mani un
potere che lo rende superiore a chiunque altro sulla terra, persino a Ryuk e agli dei della morte stessi. Il gioco che fa con L è un gioco mentale, perché
capisce che colui che lo sta cercando è intelligente tanto quanto lui, è
esattamente come lui, solo dal lato opposto dello spettro.
L è un detective brillante, che ha risolto i casi più difficili
al mondo e che vede il caso di Kira come una sfida. È un sociopatico in piena
regola anche lui, è attento a ogni mossa che fa e studia ogni mossa che fanno
gli altri, mentre nel film ci viene fatto sembrare solo molto eccentrico, senza
un minimo di approfondimento psicologico. Capisce da subito che Light è Kira ed
ha addirittura un crollo psicologico dove urla, sbraita e si dimena davanti al
papà di Light nella speranza che capisca che sì, è suo figlio il cattivone che
stanno cercando – e ovviamente non viene creduto, insomma, perché dovrei
credere a uno che sembra un avanzo di manicomio? Il personaggio originale si
prendeva il tempo che gli serviva, giocava con la mente di Light come Light
giocava con la sua: Light e L sono due geni sociopatici con due idee diverse su
cosa è giusto e cosa è sbagliato, non un teenager confuso e un detective
nevrotico.
L’ultimo dei personaggi è Ryuk, il dio della morte che dà il
quaderno della morte a Light, che viene dipinto come il vero “cattivo” del
film, colui che spinge Light a uccidere e che lo porta alla pazzia; a Ryuk,
nell’opera originale, non può fregare di meno di ciò che fa Light. Nulla. Zero
proprio.
In conclusione, oltre ad aver stravolto la vera natura della
storia, il film prende anche una posizione molto codarda riguardo a L, che nel
manga e nell’anime Light riesce a uccidere a circa metà opera proseguendo per
un lungo periodo il suo operato da Kira senza alcun disturbo, a conferma del
fatto che la linea tra bene e male è estremamente volubile e sottile, mentre
nel film vive e si vendica su Light mettendo da parte tutti i propri principi.
Stilisticamente il film non spicca ma non è neanche male e
ho apprezzato lo strizzare l’occhio ai fan del manga con dettagli come la
postura di L e le mele di Ryuk, ma ciò non toglie che come adattamento, nel
complesso, è pessimo. Vi saluto con la scena del primo incontro tra Light e
Ryuk, un capolavoro di comicità involontario.
Durante una masterclass di cinema a cui ho partecipato, un attore italiano ha pronunciato le seguenti parole: "la sceneggiatura è l'80% del film stesso. Se la sceneggiatura fa schifo, il film non è nulla." In poche parole, puoi avere la storia più bella del mondo, la regia e la fotografia più innovative, ma se la scrittura è pari a zero il tuo film farà, in una sola parola, cagare. Come dargli torto?
Questa piccola premessa serve a presentare You Get Me, un teen movie dai toni thriller, distribuito da Netflix e presente sulla piattaforma da qualche mese. La trama in soldoni: Tyler (Taylor John Smith, uno che avrà tipo quaranta anni ma fa la parte del diciassettenne) viene lasciato dalla ragazza e la sera stessa conosce Holly (Bella Thorne), con cui trascorre una notte di passione. Il giorno dopo si pente e torna dalla sua ragazza, ma presto ricomincia la scuola e qui ritrova Holly, che si è trasferita lì e che vuole riaverlo. Seguono varie cose da psicopatica, tra cui mandare in shock anafilattico un'amica della ragazza di Tyler (senza che nessuno faccia indagini o niente, in nome del realismo) e fingersi incinta, per non parlare del finale con rapimento a sorpresa.
La cosa che mi fa innervosire di più di questo film è che la trama, presa in sé, non è tanto male; di cult movie con ragazze cattive e un po' fuori di testa ce ne sono a decine, e funzionano tutti perfettamente. Il problema è che se hai una fotografia patinata, indie-ggiante, ricercata a tratti, praticamente quasi perfetta, e speri che mettendola su una sceneggiatura da film prodotto dalla ABC Family, come può essere Cyberbully, ti troverai magicamente un film decente per le mani... beh, non è così. Insomma questo film ha paura di osare, sembra che non ci si ricordi di essere su Netflix ma su una tv via cavo familiare qualsiasi.
Oltre alla sceneggiatura praticamente inesistente, c'è un evidente problema di interpretazione: il quarantenne sopracitato è monoespressivo per tutto il film, così come la sua ragazza. Bella Thorne, che io trovo una delle attrici giovani più belle in assoluto, non brilla di certo per qualità attoriali ma ha naturalmente una faccia cattiva e maliziosa che dovrebbe farla risultare perfetta per qualsiasi ruolo del genere, ma la scrittura è talmente debole che persino lei, che ha l'aria da psicopatica per natura, risulta ridicola a tratti.
Che Vuoi Che Sia è una commedia scritta, diretta e
interpretata da Edoardo Leo, che in realtà sembra un po’ una puntata di Black
Mirror. Se avessi un disperato bisogno di soldi e ci fosse qualcuno ad offrirti
250.000 euro per girare un porno con il/la tuo/a compagno/a, cosa faresti?
Acconsentiresti sapendo che tutti, proprio tutti, dai tuoi parenti a persone
sconosciute, vedrebbero l’evento in live streaming?
Se esiste il cosidetto sogno americano, dove chiunque può
emanciparsi e diventare ricco e famoso attraverso il lavoro, allora esiste
anche il sogno italiano degli ultimi anni, dove chiunque può diventare ricco,
famoso e amato dal pubblico senza saper fare effettivamente niente – o meglio,
senza sfruttare le proprie abilità, ma facendo leva sulla stupidità della
gente. Claudio (Edoardo Leo) e Anna (Anna Foglietta) sono due lavoratori
capaci: il primo laureato in ingegneria informatica, ma fa il tecnico
informatico a tempo perso; la seconda professoressa di matematica al liceo,
dove però è solo una supplente. I due vorrebbero metter su famiglia, però
faticano ad arrivare a fine mese e quindi continuano a rimandare, ma una
speranza si riaccende quando Claudio ha l’idea di creare un portale web e si
appella quindi a un sito di crowdfunding. Le donazioni sono misere, finché non
promette, per scherzo, che se l’obiettivo di almeno 20.000 euro verrà raggiunto
allora girerà un porno con la sua compagna; ma la cosa degenera, ed ecco che i due
si ritrovano sotto i riflettori di mezza Italia pronta a guardarli nella loro
camera da letto.
Nell’attesa del fatidico giorno in cui dovranno condividere
la loro intimità davanti alle telecamere, le persone li fermano per strada, ci
fanno i meme su internet, vanno al telegiornale e ai talk show e li invitano
come ospiti nelle discoteche. Le aziende gli spediscono cose più o meno costose
a casa e li pagano perché facciano un selfie con i loro prodotti e lo postino
sui social. Sembra un sogno, avere fama, soldi e cose gratis senza aver fatto
assolutamente nulla, ma Anna e Claudio sono due persone semplici a cui la fama
non interessa, i soldi fanno gola ma da qui all’essere schiacchiati dalla
pressione mediatica è un attimo. Il film, chiaramente, si discosta dall’essere
una commedia e basta, e questo è il primo messaggio che ci trasmette: per una
tale somma è facile dire di sì, ma tutt’altro che facile è poi tener testa alle
conseguenze.
Il secondo messaggio che traspare riguarda invece l’ossessione
della società nel voler a tutti i costi spiare gli altri. Ci sono centinaia di
migliaia di porno su internet, anche gratuiti, quindi perché qualcuno dovrebbe
voler pagare per vedere il film amatoriale di una coppia sul lastrico? La
risposta è perché ci piace farci i fatti degli altri, internet e più in
particolare i social si basano su questo. In fondo lo facciamo anche noi,
passare ore a scorrere la home di Facebook, stalkerare tutti i profili social
di persone che ci sembrano interessanti. Non riusciamo più a conoscere una
persona per quello che è, per sentire cos’ha da dire, vogliamo solo entrare nei
fatti loro per trovare qualcosa di cui parlare.
Al di là di tutto ciò, non ho speso nessuna parola sul film
in sé, quindi mi limito due frasi: se avessi la possibilità di scegliere due
attori italiani, un uomo e una donna, che facciano coppia fissa in ogni film,
questi sarebbero senz’altro Edoardo Leo e Anna Foglietta. Quindi sono un po’ di
parte, ma il film mi è piaciuto molto.
Aspettavo con ansia di vedere Un Bacio, l’ultimo film di
Ivan Cotroneo – sono una grande fan dei suoi lavori, È Arrivata La Felicità è
una delle serie tv che mi è piaciuta di più nell’ultimo anno e chiunque mi
conosca sa che impazzisco quando si tratta di Mine Vaganti.
Wikipedia mi dice che è ispirato a The Perks Of Being A
Wallflower, ma il paragone regge poco in quanto l’unica cosa che i due film
hanno in comune è il fatto che i protagonisti siano una ragazza e due ragazzi
emarginati e che uno di loro sia gay. In poche parole, Lorenzo, Blu e Antonio sono
rispettivamente “il frocio, la troia e lo scemo della scuola” (come li ha
descritti Cotroneo per sottolineare l’indelicatezza dei termini) che, essendo
allontanati da tutti, stringono in poco tempo una solida amicizia.
Il problema è che nel film ci sono varie cose che non
funzionano. In primo luogo, non ho capito se sia stata la performance attoriale
a non piacermi (i tre protagonisti sono al loro primo film) o semplicemente il
fatto che i dialoghi fossero scritti piuttosto male. Momenti commedia fuori
luogo, frasi recitate in maniera eccessivamente drammatica, troppe punchline in
stile “americano”, che secondo me nel cinema italiano risultano forzate e poco
spontanee. Tutto quello che veniva detto l’ho “sentito” poco (e ciò non è
dovuto al fatto che anche l’audio non fosse un granché), i tre ragazzi sono
sommersi di problemi ma non sono riusciti a trasmettermeli – eccetto forse per
Antonio, ragazzo chiaramente disturbato mentalmente nonostante la cosa non
venga mai menzionata direttamente. Antonio non è semplicemente “scemo”, è
traumatizzato dalla perdita del fratello maggiore ed è incapace di accettare e
gestire i propri sentimenti, e il fatto che un film il cui messaggio si basa
sull’essere vittima di pregiudizi non abbia approfondito questo aspetto mi ha
lasciata un po’ così. Un’altra cosa che non mi è piaciuta è stata che i suoi
sentimenti nei confronti di Blu e di Lorenzo arrivano allo spettatore in
maniera confusa, non si capisce se gli piaccia lei, se gli piaccia lui, se gli
piacciano entrambi e una presa di posizione su quest’argomento sarebbe stata
coraggiosa; sarebbe stata anche possibile, ma il film arriva al suo climax in
maniera veloce e improvvisa e così facendo si ha l’impressione di vedere e
sapere troppo tutto insieme senza capire effettivamente le motivazioni che
hanno spinto i tre ragazzi a fare l’uno o l’altro gesto. Inoltre il film non sa
bene se essere una commedia, un coming-of-age, un film drammatico, per questo
risulta tutto troppo eccessivo. Molto carine però, a mio parere, le scene
musical e quelle immaginate da Lorenzo – se si fosse giocato di più su quest’aspetto
inverosimile forse il film avrebbe avuto un’identità più precisa.
Nonostante tutti questi problemi di scrittura, il film vuole
trasmettere un messaggio molto importante di cui non se ne parlerà mai
abbastanza, quello di non piegarsi al bullismo di ogni genere e il non
giudicare una persona in base a ciò che viene detto di essa, indirizzato
specialmente ai giovani – infatti all’anteprima erano presenti diverse classi
di liceali. Esemplare è la scena finale che mostra che, se si ha un problema
con qualcuno, è sempre meglio parlarne piuttosto che reprimere e arrivare al
limite in cui, spesso, non si risponde delle proprie azioni e si sfocia nella
violenza.
Film promosso sulla fiducia per Cotroneo, per il messaggio
tramesso e per la canzone di apertura e chiusura del film perché i Placebo sono
il mio gruppo preferito.
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The perks of being a wallflower (Stephen Chbosky, 2012)
Mettiamo subito le cose in chiaro: Io Prima Di Te non è un
bel film. La premessa è molto banale, la sceneggiatura è scritta da cani e
forse è recitato anche peggio. I due personaggi principali sono talmente
esasperati nelle loro caratteristiche che a tratti risultano essere anche
fastidiosi: lei, Emilia Clarke, vestita direttamente dal guardaroba de Il Mondo
Di Patty, la classica ragazza “non bella”, semplice, che non fa sangue (e insomma…) ma dal cuore d’oro, sempre gentile, attenta e che si spacca la
schiena per aiutare la famiglia; lui, Sam Claflin, bonazzo milionario un po’
stronzo che rimane paralizzato dopo un incidente e quindi deve decisamente
ridimensionare il suo tenore di vita. Ora, due del genere come potevano non
innamorarsi? Ecco, appunto.
Premesso che io sono tutt’altro che una fan del genere “storie
strappalacrime di persone che si innamorano di altre persone con
handicap/malattie terminali”, e si è sicuramente notato data la stroncatura
iniziale, c’è una cosa di questo film che io ho apprezzato molto ed è infatti
il motivo che mi ha spinto a scriverne: questo film è incredibilmente
superficiale pur trattando un tema delicatissimo, e paradossalmente funziona.
Il personaggio di Sam Claflin è in sé superficiale, se così possiamo definirlo.
Perde qualsiasi voglia di vivere dopo l’incidente, perché abituato a una vita
di eccessi, sport adrenalinici, conquiste amorose ecc. che chiaramente non può
più condurre, e per di più talvolta continua a essere stronzo – ma il
personaggio della Clarke è talmente una cagacazzo che non me la sento di
biasimarlo per questo. Il punto è che lui, per tutto il film, non “guarisce” da
questa sua condizione; il male di vivere persiste perché puoi avere chiunque
accanto a te, ma se non stai bene con te stesso c’è poco da fare. L’amore ci
può alleviare qualche sofferenza e rendere più piacevole la nostra permanenza
qui, ma purtroppo non è il rimedio a ogni cosa e non si vive di solo
amore. Questo è, sostanzialmente, il
messaggio che trasmette il film, un messaggio a mio parere veritiero e
realistico, diverso dall’idea che spesso viene trasmessa nei film che “l’amore
ci salva da ogni cosa”. Non è così, perché al contrario di come la pietà generale
ci induca a pensare, le persone disabili non sono santi, non sono più sensibili
o più delicate, sono per l’appunto persone che provano rabbia, odio, delusione
come chiunque altro sulla faccia della Terra. E il personaggio di Claflin ne è
perfettamente consapevole, che neanche l’amore sarà in grado di restituirgli
ciò che ha perso, quindi perché fingere il contrario?
Diciamo che ho voluto scavare a fondo, trovando forse un
significato che in realtà non c’è, e il film magari è semplicemente scritto da
cani. Ma tant’è.