2017

venerdì, ottobre 27, 2017

Sirene: bene ma non benissimo


Sirene è la nuova fiction Rai, il cui tema principale è facilmente intuibile dal titolo. Lo sceneggiatore di Sirene, Ivan Cotroneo (regista anche di Un Bacio, qui la recensione), è uno che in televisione ci ha visto lungo: dalla sua penna saltano fuori Tutti Pazzi Per Amore, un’adorabile commedia familiare in stile musical, ed È Arrivata La Felicità, una delle fiction migliori che io abbia mai visto, di cui aspetto con ansia la seconda stagione – e che consiglio veramente a tutti di guardare, ve ne innamorerete.

Nonostante avesse già sperimentato l’irrealismo in Tutti Pazzi Per Amore – tramite un personaggio deceduto che narrava le vicende dall’aldilà – qui Cotroneo si butta sul fantasy pesante e decide di parlare delle sirene, localizzandole – come è giusto che sia, a Napoli. Il primo difetto, se così vogliamo chiamarlo, della serie è proprio l’ostacolo dato dall’incentrare la storia su creature mitologiche decisamente poco utilizzate nei media: non avendo riferimenti mediatici e popolari da cui attingere (come accade con i vampiri, ad esempio), le abitudini e le caratteristiche delle sirene sono state inventate di sana pianta e con poca attenzione ai dettagli, per cui spesso si scade nel banale o peggio si cade in evidenti buchi di trama. Personalmente non considero la cosa un gran problema, se avessi voluto guardare un documentario sulla leggenda delle sirene l’avrei fatto, però pur essendo in Rai mi sarei aspettata una ricerca e una continuità più accurata.
La fotografia è un’altra cosa che non ho apprezzato: Napoli è una città meravigliosa, piena di colori e di scorci suggestivi, e proprio perché ho riconosciuto nella serie i luoghi che vedo ogni giorno so che si poteva fare decisamente di meglio – piccolo esempio: la stazione metropolitana di Toledo, mostrata nella scena all’inizio, un luogo che offre mille spunti mostrato come se fosse un posto qualsiasi (ma essendo che il tema della stazione è proprio il mare, mi aspetto che venga mostrata in maniera migliore nelle prossime puntate). In tante scene ho avuto l’impressione che stessero sprecando l’occasione di riprendere qualcosa di bello, tant’è che avevo voglia di gridare alla tv  “gira la camera di là! Aggiusta le luci! Quel posto è così bello e lo stai inquadrando male!”. Sugli effetti speciali non ho granché da dire, sicuramente dignitosi per una serie del genere (a parte un paio di eccezioni) e le scene sott’acqua mi sono piaciute molto.
I personaggi, specialmente quelli umani, sono parecchio stereotipati (Argentero il fessacchiotto della situazione, Gallo l’uomo zerbino, ecc.) così come le sirene che con la loro misandria a volte sono decisamente troppo, ma comunque trovo l’idea di rovesciare i ruoli – sirene autoritarie, uomini succubi abbastanza simpatica.
Posso quindi dire che mi aspettavo un prodotto dalla qualità decisamente migliore, ma in sintesi Sirene va presa per quella che è, una serie molto leggera e alla mano, ottima per occupare un’oretta e mezza alla settimana senza fare grandi analisi televisive e sociali. C’è un po’ di trash consapevole (specialmente nel personaggio di Maria Pia Calzone), a volte si scade nel banale, ma se non la si prende troppo sul serio è godibilissima. Anche se si può sempre migliorare e spero lo faccia, nelle prossime puntate.
Probabilmente l’unica cosa davvero orribile è il finto accento napoletano di Luca Argentero. Terrificante.


mercoledì, ottobre 18, 2017

Suburra: Spadino, Aureliano e la rappresentazione LGBT


Suburra – La serie, presquel dell’omonimo film, è uscita da qualche settimana e praticamente mezzo popolo italiano l’ha binge-watchata (passatemi l’inglesismo), e già questa è una grande vittoria per la nostra serialità: dopo Romanzo Criminale e Gomorra, alle quali ogni serie verrà sempre e inevitabilmente paragonata, siamo stati capaci di creare un’altra serie di genere con un certo impatto mediatico e popolare, ma soprattutto di qualità – per trama, recitazione, regia, sceneggiatura, tutto.

Adesso non voglio perdermi in lusinghe inutili, perché se dovessimo approfondire Suburra ha sicuramente la sua dose di difetti, ma anche perché non è questo l’argomento del post.
Ciò che Suburra ha e che le altre serie italiane (ma anche internazionali, a dire il vero) non hanno è la presenza di Spadino, un personaggio dichiaratamente gay – per il pubblico più che per i personaggi della serie, dove tutti lo sanno ma nessuno ne parla – in un ambiente telefilmico e cinematografico dove i personaggi LGBT vengono rappresentati marginalmente e come “macchiette” oppure non vengono rappresentati affatto, ovvero quello della criminalità organizzata. Ritornando al paragone con Gomorra, ho un vago ricordo di un ragazzino transgender che viene freddato entro la fine della puntata; c’è anche la fidanzata del boss Salvatore Conte, donna transessuale che ricordiamo per l’iconica scena che qualsiasi abitante dell’entroterra napoletano continua a imitarecompulsivamente dopo due anni dalla sua messa in onda (ve lo giuro). Il primo un espediente narrativo che, appunto, si esaurisce nel giro di una puntata; il secondo un personaggio dalle nobili intenzioni narrative, cioè il desiderio di condurre una vita di coppia normale, ma che ha avuto l’impatto opposto nell’immaginario collettivo popolare – po po po po.
In Romanzo Criminale c’era Ranocchia, un personaggio molto marginale, né particolarmente positivo né particolarmente negativo, dagli atteggiamenti effemminati che i membri della banda spesso e volentieri prendevano in giro.

Spadino si inserisce in un ambiente inedito al pubblico italiano: il fratello minore del boss di uno dei clan criminali più potenti di Roma, forzato in un matrimonio combinato con una donna ma chiaramente innamorato di un suo partner-in-crime, il figlio del boss di un clan nemico – e qui le allegorie su Romeo e Giulietta si sprecherebbero, ma ricordiamoci che questo è un blog di recensioni serie. Più o meno.
Spadino vive questa sua sessualità tutt’altro che con tranquillità e spensieratezza, ma ciò non impedisce al personaggio di crescere, evolversi e agire in altri ambiti. Insomma, la serie è così piena di sottotrame che di Spadino innamorato di Aureliano, mentre guardiamo la serie, non ce ne può fregar di meno. Viene tutto mostrato, nulla viene lasciato all’interpretazione personale (come fanno molte serie americane e inglesi, fin troppe a mio avviso), ma ciò non è assolutamente centrale e rilevante ai fini della trama principale. Ed è normale che sia così, perché il fulcro di Spadino, così come degli altri personaggi, è che è un criminale, non un omosessuale, e soprattutto non una “macchietta” – se a Spadino gli urli frocio per strada, come minimo ti sgozza con il suo coltello.

E adesso passiamo all’altro lato della medaglia. Aureliano nella serie ha amato una donna (e un’altra ancora nel film, ammesso e concesso che la serie decida di essergli fedele) e non ricambia i sentimenti di Spadino, quindi tutto ci fa presupporre che sia eterosessuale. Aureliano è il figlio di un boss quando inizia la serie, nel film invece lo vediamo già a capo del clan di famiglia, e a mio avviso, in entrambe le opere, è caratterizzato come il personaggio più violento tra tutti. Nella serie, Spadino è l’unico amico di Aureliano ed è l’unico che più o meno, con le dovute differenze, condivide la sua visione del mondo. Aureliano è anche carnale nei confronti di Spadino, ci tiene a lui, se il secondo lo abbraccia lui non si tira indietro, canta e si diverte e altre coseche chi ha visto la serie sa. E quando le cose tra i due precipitano, lui potrebbe andare a cercarlo e ucciderlo subito, ucciderebbe per molto meno (e chi ricorda il film sa di cosa sto parlando) ma no, non lo fa fuori.

Ora, questo può significare tutto o niente, però penso che in un’eventuale seconda stagione ci siano i presupposti per creare qualcosa di nuovo e rivoluzionario, tutto sta alla piega narrativa che si deciderà di prendere – e anche un po’ al coraggio degli autori, che hanno iniziato a perseguire una strada, quella della rappresentazione LGBT nelle serie di genere, in una maniera eccelsa, e che potrebbero continuare. Non sono il tipo di persona che in una serie si fossilizza sulle relazioni romantiche o sessuali dei personaggi, ho sempre preferito vedere le cose nel complesso, finché la serie è scritta e girata così come ci ha abituati dalla prima puntata, del rapporto tra Spadino e Aureliano posso tranquillamente farne a meno.

Ma ricordiamoci, però, che questi personaggi potrebbero esistere, o forse esistono già – e non parlo del ragazzo che si innamora di un amico, ma di una fluidità sessuale e romantica che esiste nelle persone “normali” e non c’è motivo per cui non possa esistere in un criminale. I presupposti ci sono e queste persone esistono. Rappresentatele. 

sabato, agosto 26, 2017

Death Note, chi pensava che fosse una buona idea?


Come penso sia ormai noto al pubblico di internet, Netflix ha rilasciato in questi giorni il film Death Note, tratto dal celeberrimo manga giapponese che, se avete attraversato la fase giappominkia nella vostra pre-adolescenza, non potete non aver letto – o visto l’anime che ne è stato tratto. La fase giappominkia l’ho attraversata anche io, e lessi Death Note nell’estate che credo anticipasse la terza media, durante una vacanza a Ischia dove il mio interesse a passare tempo di qualità con la mia famiglia era pressappoco pari a zero, con le scansioni rigorosamente scaricate da ForumFree e accuratamente trasferite nella galleria del mio Nokia 5300. Già allora giravano voci sull’acquisizione dei diritti cinematografici da parte della Warner Bros con l’intenzione di farne un film diretto prima da Shane Black, poi si è detto da Gus Van Sant, ma evidentemente le cose hanno preso una piega diversa e adesso ci ritroviamo con un film di Neflix diretto da Adam Wingard, già regista di vari film tra cui un magistrale The Guest e il sequel di The Blair Witch Project.

Vi avviso che in questa recensione ci saranno spoiler e non avete il diritto di lamentarvene, considerato che l’opera originale è uscita un bel po’ di anni fa e che è inaccettabile che non abbiate avuto una fase giappominkia in cui avreste dovuto farvi una cultura a riguardo – detto con tono ironico, ma non troppo. Death Note è in realtà una grande opera, forse uno dei pochi anime giapponesi ad aver raggiunto un successo tale da esser stato visto anche da gente che per anime e manga non aveva interesse alcuno, e immagino che ciò sia accaduto per la potenza della storia dove tutto viene basato sulla sottilissima linea tra bene e male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Questo è il nodo centrale attorno a cui si sviluppa tutto e vengono costruiti i due personaggi principali, lo studente modello Light Yagami (nel film Light Turner) e il detective L. Il grosso problema sta nel fatto che questo nodo centrale è esattamente ciò che viene a mancare nella trasposizione cinematografica americana.

È chiaramente ovvio che portando un’opera dal Giappone all’America, dall’animazione al live action, certe cose vadano inevitabilmente a perdersi. Tra i due paesi c’è un gap culturale enorme ed è giusto che un’opera venga trasposta in base alle consuetudini del paese a cui essa è destinata, per cui è chiaro che molte svolte nella storia e molti tratti marginali dei personaggi vengano modificati o eliminati del tutto – anche considerando che Death Note è un’opera lunghissima e anche un po’ ripetitiva, e per trasporre fedelmente tutto ciò che viene mostrato su carta non sarebbe bastata neanche la durata totale della trilogia de Il Signore Degli Anelli.
Ciò che però non è giusto è stravolgere la caratterizzazione dei personaggi al tal punto da renderli completamente diversi da ciò che erano in partenza, dando vita a una rappresentazione che sembra quasi una caricatura. A questo punto non è più giusto chiamarlo “adattamento”, ma piuttosto bisognava definirlo “liberamente ispirato a”. Andiamo quindi a decostruire questi personaggi, cercando di trovare il nesso tra quelli originali e quelli adattati per il film.

Mia (nel manga Misa Amane) è la ragazza di Light Turner che, quando lui riceve il quaderno della morte, lo appoggia e lo incoraggia nella sua operazione di “pulizia” dei criminali. Il primo grosso errore nella caratterizzazione di Mia è visibile già dall’inizio: Mia conosce Light che gli mostra il quaderno della morte (cosa che Light Yagami non avrebbe mai fatto, in quanto prudente e calcolatore, ma ci arriveremo dopo), si innamorano e iniziano a ripulire il mondo dai criminali, insieme. Ciò che viene mostrata allo spettatore è una complicità tra i due, un amore reciproco, un Light in funzione di Mia che segue i suoi consigli e cerca di tenerla stretta a sé – nel manga è esattamente il contrario, è Misa ad essere in funzione di Light, è completamente asservita a lui che la manipola per raggiungere i suoi scopi, facendole credere di ricambiare il suo amore ma in realtà non curandosene affatto. Il film ce li mostra come due partner in crime, ma in realtà Misa Amane è quanto di più simile a un’Harley Quinn giapponese, persa d’amore per il suo uomo e che fa tutto ciò che lui le comandi. Ma analizzando bene il carattere di Mia, si può notare che la sua personalità è molto più simile a quella del Light originale di quanto sia quella del Light mostratoci nel film: è lei a suggerire chi uccidere, è lei che è fermamente convinta di fare del bene ed è sempre lei che mostra segni del “complesso di Dio” che nel manga è un chiaro tratto del personaggio di Light.

Partiamo proprio dal “complesso di Dio” per parlare del personaggio di Light. Il credersi superiore a chiunque altro, il salvatore dell’umanità, è il tratto preponderante di Kira, che è fermamente convinto delle azioni che sta compiendo perché sono in funzione di un’idea precisa: lui è un Dio e quindi può permettersi di punire chiunque, e quest’idea ricorre per tutta l’opera e non lo abbandona mai. Questo aspetto non è stato abbastanza approfondito dal film, che l’ha accennato nella scena in cui lui illustra il significato di “Kira” a Mia, ma che nella realtà dei fatti non ci viene mostrato neanche una volta. Light Turner è un ragazzino insicuro, confuso, che riceve il quaderno della morte dal dio Ryuk e comincia a usarlo senza rendersi effettivamente conto di ciò che sta facendo e addirittura pentendosene in vari punti del film, ma non volendo riconsegnare il quaderno a Ryuk perché “qualcuno potrebbe fare di peggio” – insomma, scusate il francesismo, è un po’ un coglioncello. La realtà è che Light Yagami è non solo un perfetto stronzo, ma anche un sociopatico in piena regola, un freddo e meticoloso calcolatore che sta attento a ogni suo passo pur di non essere sgamato perché deve continuare ciò che ha iniziato, lui è Dio ed è perfettamente consapevole di ciò che fa e di avere tra le mani un potere che lo rende superiore a chiunque altro sulla terra, persino a Ryuk e agli dei della morte stessi. Il gioco che fa con L è un gioco mentale, perché capisce che colui che lo sta cercando è intelligente tanto quanto lui, è esattamente come lui, solo dal lato opposto dello spettro.


L è un detective brillante, che ha risolto i casi più difficili al mondo e che vede il caso di Kira come una sfida. È un sociopatico in piena regola anche lui, è attento a ogni mossa che fa e studia ogni mossa che fanno gli altri, mentre nel film ci viene fatto sembrare solo molto eccentrico, senza un minimo di approfondimento psicologico. Capisce da subito che Light è Kira ed ha addirittura un crollo psicologico dove urla, sbraita e si dimena davanti al papà di Light nella speranza che capisca che sì, è suo figlio il cattivone che stanno cercando – e ovviamente non viene creduto, insomma, perché dovrei credere a uno che sembra un avanzo di manicomio? Il personaggio originale si prendeva il tempo che gli serviva, giocava con la mente di Light come Light giocava con la sua: Light e L sono due geni sociopatici con due idee diverse su cosa è giusto e cosa è sbagliato, non un teenager confuso e un detective nevrotico.

L’ultimo dei personaggi è Ryuk, il dio della morte che dà il quaderno della morte a Light, che viene dipinto come il vero “cattivo” del film, colui che spinge Light a uccidere e che lo porta alla pazzia; a Ryuk, nell’opera originale, non può fregare di meno di ciò che fa Light. Nulla. Zero proprio.

In conclusione, oltre ad aver stravolto la vera natura della storia, il film prende anche una posizione molto codarda riguardo a L, che nel manga e nell’anime Light riesce a uccidere a circa metà opera proseguendo per un lungo periodo il suo operato da Kira senza alcun disturbo, a conferma del fatto che la linea tra bene e male è estremamente volubile e sottile, mentre nel film vive e si vendica su Light mettendo da parte tutti i propri principi.

Stilisticamente il film non spicca ma non è neanche male e ho apprezzato lo strizzare l’occhio ai fan del manga con dettagli come la postura di L e le mele di Ryuk, ma ciò non toglie che come adattamento, nel complesso, è pessimo. Vi saluto con la scena del primo incontro tra Light e Ryuk, un capolavoro di comicità involontario.


giovedì, agosto 10, 2017

You Get Me: per me è un no grande quanto una casa


Durante una masterclass di cinema a cui ho partecipato, un attore italiano ha pronunciato le seguenti parole: "la sceneggiatura è l'80% del film stesso. Se la sceneggiatura fa schifo, il film non è nulla." In poche parole, puoi avere la storia più bella del mondo, la regia e la fotografia più innovative, ma se la scrittura è pari a zero il tuo film farà, in una sola parola, cagare. Come dargli torto? 



Questa piccola premessa serve a presentare You Get Me, un teen movie dai toni thriller, distribuito da Netflix e presente sulla piattaforma da qualche mese. La trama in soldoni: Tyler (Taylor John Smith, uno che avrà tipo quaranta anni ma fa la parte del diciassettenne) viene lasciato dalla ragazza e la sera stessa conosce Holly (Bella Thorne), con cui trascorre una notte di passione. Il giorno dopo si pente e torna dalla sua ragazza, ma presto ricomincia la scuola e qui ritrova Holly, che si è trasferita lì e che vuole riaverlo. Seguono varie cose da psicopatica, tra cui mandare in shock anafilattico un'amica della ragazza di Tyler (senza che nessuno faccia indagini o niente, in nome del realismo) e fingersi incinta, per non parlare del finale con rapimento a sorpresa.



La cosa che mi fa innervosire di più di questo film è che la trama, presa in sé, non è tanto male; di cult movie con ragazze cattive e un po' fuori di testa ce ne sono a decine, e funzionano tutti perfettamente. Il problema è che se hai una fotografia patinata, indie-ggiante, ricercata a tratti, praticamente quasi perfetta, e speri che mettendola su una sceneggiatura da film prodotto dalla ABC Family, come può essere Cyberbully, ti troverai magicamente un film decente per le mani... beh, non è così. Insomma questo film ha paura di osare, sembra che non ci si ricordi di essere su Netflix ma su una tv via cavo familiare qualsiasi.
Oltre alla sceneggiatura praticamente inesistente, c'è un evidente problema di interpretazione: il quarantenne sopracitato è monoespressivo per tutto il film, così come la sua ragazza. Bella Thorne, che io trovo una delle attrici giovani più belle in assoluto, non brilla di certo per qualità attoriali ma ha naturalmente una faccia cattiva e maliziosa che dovrebbe farla risultare perfetta per qualsiasi ruolo del genere, ma la scrittura è talmente debole che persino lei, che ha l'aria da psicopatica per natura, risulta ridicola a tratti. 
Insomma, potevamo farne a meno.

Se ti è piaciuto potrebbero piacerti...

  • The Bling Ring (Sofia Coppola, 2013)
  • Nerve (Henry Joost, 2016)


venerdì, aprile 28, 2017

Che Vuoi Che Sia: cosa faresti per 250.000 euro?


Che Vuoi Che Sia è una commedia scritta, diretta e interpretata da Edoardo Leo, che in realtà sembra un po’ una puntata di Black Mirror. Se avessi un disperato bisogno di soldi e ci fosse qualcuno ad offrirti 250.000 euro per girare un porno con il/la tuo/a compagno/a, cosa faresti? Acconsentiresti sapendo che tutti, proprio tutti, dai tuoi parenti a persone sconosciute, vedrebbero l’evento in live streaming?

 
Se esiste il cosidetto sogno americano, dove chiunque può emanciparsi e diventare ricco e famoso attraverso il lavoro, allora esiste anche il sogno italiano degli ultimi anni, dove chiunque può diventare ricco, famoso e amato dal pubblico senza saper fare effettivamente niente – o meglio, senza sfruttare le proprie abilità, ma facendo leva sulla stupidità della gente. Claudio (Edoardo Leo) e Anna (Anna Foglietta) sono due lavoratori capaci: il primo laureato in ingegneria informatica, ma fa il tecnico informatico a tempo perso; la seconda professoressa di matematica al liceo, dove però è solo una supplente. I due vorrebbero metter su famiglia, però faticano ad arrivare a fine mese e quindi continuano a rimandare, ma una speranza si riaccende quando Claudio ha l’idea di creare un portale web e si appella quindi a un sito di crowdfunding. Le donazioni sono misere, finché non promette, per scherzo, che se l’obiettivo di almeno 20.000 euro verrà raggiunto allora girerà un porno con la sua compagna; ma la cosa degenera, ed ecco che i due si ritrovano sotto i riflettori di mezza Italia pronta a guardarli nella loro camera da letto.

Nell’attesa del fatidico giorno in cui dovranno condividere la loro intimità davanti alle telecamere, le persone li fermano per strada, ci fanno i meme su internet, vanno al telegiornale e ai talk show e li invitano come ospiti nelle discoteche. Le aziende gli spediscono cose più o meno costose a casa e li pagano perché facciano un selfie con i loro prodotti e lo postino sui social. Sembra un sogno, avere fama, soldi e cose gratis senza aver fatto assolutamente nulla, ma Anna e Claudio sono due persone semplici a cui la fama non interessa, i soldi fanno gola ma da qui all’essere schiacchiati dalla pressione mediatica è un attimo. Il film, chiaramente, si discosta dall’essere una commedia e basta, e questo è il primo messaggio che ci trasmette: per una tale somma è facile dire di sì, ma tutt’altro che facile è poi tener testa alle conseguenze.

Il secondo messaggio che traspare riguarda invece l’ossessione della società nel voler a tutti i costi spiare gli altri. Ci sono centinaia di migliaia di porno su internet, anche gratuiti, quindi perché qualcuno dovrebbe voler pagare per vedere il film amatoriale di una coppia sul lastrico? La risposta è perché ci piace farci i fatti degli altri, internet e più in particolare i social si basano su questo. In fondo lo facciamo anche noi, passare ore a scorrere la home di Facebook, stalkerare tutti i profili social di persone che ci sembrano interessanti. Non riusciamo più a conoscere una persona per quello che è, per sentire cos’ha da dire, vogliamo solo entrare nei fatti loro per trovare qualcosa di cui parlare.

Al di là di tutto ciò, non ho speso nessuna parola sul film in sé, quindi mi limito due frasi: se avessi la possibilità di scegliere due attori italiani, un uomo e una donna, che facciano coppia fissa in ogni film, questi sarebbero senz’altro Edoardo Leo e Anna Foglietta. Quindi sono un po’ di parte, ma il film mi è piaciuto molto.  


Se ti è piaciuto potrebbero anche piacerti...

  • Noi E La Giulia (Edoardo Leo, 2015)
  • Perfetti Sconosciuti (Paolo Genovese, 2016)
  • Ti Ricordi Di Me? (Rolando Ravello, 2014)
  • Tutta Colpa Di Freud (Paolo Genovese, 2014)

venerdì, febbraio 10, 2017

Un Bacio di Ivan Cotroneo, il troppo che stroppia


Aspettavo con ansia di vedere Un Bacio, l’ultimo film di Ivan Cotroneo – sono una grande fan dei suoi lavori, È Arrivata La Felicità è una delle serie tv che mi è piaciuta di più nell’ultimo anno e chiunque mi conosca sa che impazzisco quando si tratta di Mine Vaganti.
Wikipedia mi dice che è ispirato a The Perks Of Being A Wallflower, ma il paragone regge poco in quanto l’unica cosa che i due film hanno in comune è il fatto che i protagonisti siano una ragazza e due ragazzi emarginati e che uno di loro sia gay. In poche parole, Lorenzo, Blu e Antonio sono rispettivamente “il frocio, la troia e lo scemo della scuola” (come li ha descritti Cotroneo per sottolineare l’indelicatezza dei termini) che, essendo allontanati da tutti, stringono in poco tempo una solida amicizia.

Il problema è che nel film ci sono varie cose che non funzionano. In primo luogo, non ho capito se sia stata la performance attoriale a non piacermi (i tre protagonisti sono al loro primo film) o semplicemente il fatto che i dialoghi fossero scritti piuttosto male. Momenti commedia fuori luogo, frasi recitate in maniera eccessivamente drammatica, troppe punchline in stile “americano”, che secondo me nel cinema italiano risultano forzate e poco spontanee. Tutto quello che veniva detto l’ho “sentito” poco (e ciò non è dovuto al fatto che anche l’audio non fosse un granché), i tre ragazzi sono sommersi di problemi ma non sono riusciti a trasmettermeli – eccetto forse per Antonio, ragazzo chiaramente disturbato mentalmente nonostante la cosa non venga mai menzionata direttamente. Antonio non è semplicemente “scemo”, è traumatizzato dalla perdita del fratello maggiore ed è incapace di accettare e gestire i propri sentimenti, e il fatto che un film il cui messaggio si basa sull’essere vittima di pregiudizi non abbia approfondito questo aspetto mi ha lasciata un po’ così. Un’altra cosa che non mi è piaciuta è stata che i suoi sentimenti nei confronti di Blu e di Lorenzo arrivano allo spettatore in maniera confusa, non si capisce se gli piaccia lei, se gli piaccia lui, se gli piacciano entrambi e una presa di posizione su quest’argomento sarebbe stata coraggiosa; sarebbe stata anche possibile, ma il film arriva al suo climax in maniera veloce e improvvisa e così facendo si ha l’impressione di vedere e sapere troppo tutto insieme senza capire effettivamente le motivazioni che hanno spinto i tre ragazzi a fare l’uno o l’altro gesto. Inoltre il film non sa bene se essere una commedia, un coming-of-age, un film drammatico, per questo risulta tutto troppo eccessivo. Molto carine però, a mio parere, le scene musical e quelle immaginate da Lorenzo – se si fosse giocato di più su quest’aspetto inverosimile forse il film avrebbe avuto un’identità più precisa.

Nonostante tutti questi problemi di scrittura, il film vuole trasmettere un messaggio molto importante di cui non se ne parlerà mai abbastanza, quello di non piegarsi al bullismo di ogni genere e il non giudicare una persona in base a ciò che viene detto di essa, indirizzato specialmente ai giovani – infatti all’anteprima erano presenti diverse classi di liceali. Esemplare è la scena finale che mostra che, se si ha un problema con qualcuno, è sempre meglio parlarne piuttosto che reprimere e arrivare al limite in cui, spesso, non si risponde delle proprie azioni e si sfocia nella violenza.

Film promosso sulla fiducia per Cotroneo, per il messaggio tramesso e per la canzone di apertura e chiusura del film perché i Placebo sono il mio gruppo preferito. 

Se ti è piaciuto potrebbero anche piacerti...
  • The perks of being a wallflower (Stephen Chbosky, 2012)
  • Come non detto (Ivan Silvestrini, 2011)
  • Più buio di mezzanotte (Sebastiano Riso, 2014)
  • La kryptonite nella borsa (Ivan Cotroneo, 2011)

martedì, gennaio 03, 2017

Una visione diversa della disabilità: Io Prima Di Te


Mettiamo subito le cose in chiaro: Io Prima Di Te non è un bel film. La premessa è molto banale, la sceneggiatura è scritta da cani e forse è recitato anche peggio. I due personaggi principali sono talmente esasperati nelle loro caratteristiche che a tratti risultano essere anche fastidiosi: lei, Emilia Clarke, vestita direttamente dal guardaroba de Il Mondo Di Patty, la classica ragazza “non bella”, semplice, che non fa sangue (e insomma…) ma dal cuore d’oro, sempre gentile, attenta e che si spacca la schiena per aiutare la famiglia; lui, Sam Claflin, bonazzo milionario un po’ stronzo che rimane paralizzato dopo un incidente e quindi deve decisamente ridimensionare il suo tenore di vita. Ora, due del genere come potevano non innamorarsi? Ecco, appunto.

Premesso che io sono tutt’altro che una fan del genere “storie strappalacrime di persone che si innamorano di altre persone con handicap/malattie terminali”, e si è sicuramente notato data la stroncatura iniziale, c’è una cosa di questo film che io ho apprezzato molto ed è infatti il motivo che mi ha spinto a scriverne: questo film è incredibilmente superficiale pur trattando un tema delicatissimo, e paradossalmente funziona. Il personaggio di Sam Claflin è in sé superficiale, se così possiamo definirlo. Perde qualsiasi voglia di vivere dopo l’incidente, perché abituato a una vita di eccessi, sport adrenalinici, conquiste amorose ecc. che chiaramente non può più condurre, e per di più talvolta continua a essere stronzo – ma il personaggio della Clarke è talmente una cagacazzo che non me la sento di biasimarlo per questo. Il punto è che lui, per tutto il film, non “guarisce” da questa sua condizione; il male di vivere persiste perché puoi avere chiunque accanto a te, ma se non stai bene con te stesso c’è poco da fare. L’amore ci può alleviare qualche sofferenza e rendere più piacevole la nostra permanenza qui, ma purtroppo non è il rimedio a ogni cosa e non si vive di solo amore.  Questo è, sostanzialmente, il messaggio che trasmette il film, un messaggio a mio parere veritiero e realistico, diverso dall’idea che spesso viene trasmessa nei film che “l’amore ci salva da ogni cosa”. Non è così, perché al contrario di come la pietà generale ci induca a pensare, le persone disabili non sono santi, non sono più sensibili o più delicate, sono per l’appunto persone che provano rabbia, odio, delusione come chiunque altro sulla faccia della Terra. E il personaggio di Claflin ne è perfettamente consapevole, che neanche l’amore sarà in grado di restituirgli ciò che ha perso, quindi perché fingere il contrario?


Diciamo che ho voluto scavare a fondo, trovando forse un significato che in realtà non c’è, e il film magari è semplicemente scritto da cani. Ma tant’è. 

Se ti è piaciuto potrebbero piacerti...
  • Love, Rosie (Christian Ditter, 2014)
  • One Day (Lone Scherfig, 2011)
  • The Theory Of Everything (James Marsh, 2014)