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sabato, agosto 26, 2017
Come penso sia ormai noto al pubblico di internet, Netflix
ha rilasciato in questi giorni il film Death Note, tratto dal celeberrimo manga
giapponese che, se avete attraversato la fase giappominkia nella vostra
pre-adolescenza, non potete non aver letto – o visto l’anime che ne è stato
tratto. La fase giappominkia l’ho attraversata anche io, e lessi Death Note
nell’estate che credo anticipasse la terza media, durante una vacanza a Ischia
dove il mio interesse a passare tempo di qualità con la mia famiglia era
pressappoco pari a zero, con le scansioni rigorosamente scaricate da ForumFree
e accuratamente trasferite nella galleria del mio Nokia 5300. Già allora
giravano voci sull’acquisizione dei diritti cinematografici da parte della
Warner Bros con l’intenzione di farne un film diretto prima da Shane Black, poi
si è detto da Gus Van Sant, ma evidentemente le cose hanno preso una piega
diversa e adesso ci ritroviamo con un film di Neflix diretto da Adam Wingard,
già regista di vari film tra cui un magistrale The Guest e il sequel di The
Blair Witch Project.
Vi avviso che in questa recensione ci saranno spoiler e non
avete il diritto di lamentarvene, considerato che l’opera originale è uscita un
bel po’ di anni fa e che è inaccettabile che non abbiate avuto una fase
giappominkia in cui avreste dovuto farvi una cultura a riguardo – detto con
tono ironico, ma non troppo. Death Note è in realtà una grande opera, forse uno
dei pochi anime giapponesi ad aver raggiunto un successo tale da esser stato
visto anche da gente che per anime e manga non aveva interesse alcuno, e
immagino che ciò sia accaduto per la potenza della storia dove tutto viene
basato sulla sottilissima linea tra bene e male, tra ciò che è giusto e ciò che
è sbagliato. Questo è il nodo centrale attorno a cui si sviluppa tutto e
vengono costruiti i due personaggi principali, lo studente modello Light Yagami
(nel film Light Turner) e il detective L. Il grosso problema sta nel fatto che
questo nodo centrale è esattamente ciò che viene a mancare nella trasposizione
cinematografica americana.
È chiaramente ovvio che portando un’opera dal Giappone all’America,
dall’animazione al live action, certe cose vadano inevitabilmente a perdersi.
Tra i due paesi c’è un gap culturale enorme ed è giusto che un’opera venga
trasposta in base alle consuetudini del paese a cui essa è destinata, per cui è
chiaro che molte svolte nella storia e molti tratti marginali dei personaggi
vengano modificati o eliminati del tutto – anche considerando che Death Note è
un’opera lunghissima e anche un po’ ripetitiva, e per trasporre fedelmente
tutto ciò che viene mostrato su carta non sarebbe bastata neanche la durata
totale della trilogia de Il Signore Degli Anelli.
Ciò che però non è giusto è stravolgere la caratterizzazione
dei personaggi al tal punto da renderli completamente diversi da ciò che erano
in partenza, dando vita a una rappresentazione che sembra quasi una caricatura.
A questo punto non è più giusto chiamarlo “adattamento”, ma piuttosto bisognava
definirlo “liberamente ispirato a”. Andiamo quindi a decostruire questi
personaggi, cercando di trovare il nesso tra quelli originali e quelli adattati
per il film.
Mia (nel manga Misa Amane) è la ragazza di Light Turner che,
quando lui riceve il quaderno della morte, lo appoggia e lo incoraggia nella
sua operazione di “pulizia” dei criminali. Il primo grosso errore nella
caratterizzazione di Mia è visibile già dall’inizio: Mia conosce Light che gli
mostra il quaderno della morte (cosa che Light Yagami non avrebbe mai fatto, in
quanto prudente e calcolatore, ma ci arriveremo dopo), si innamorano e iniziano
a ripulire il mondo dai criminali, insieme. Ciò che viene mostrata allo
spettatore è una complicità tra i due, un amore reciproco, un Light in funzione
di Mia che segue i suoi consigli e cerca di tenerla stretta a sé – nel manga è
esattamente il contrario, è Misa ad essere in funzione di Light, è
completamente asservita a lui che la manipola per raggiungere i suoi scopi,
facendole credere di ricambiare il suo amore ma in realtà non curandosene
affatto. Il film ce li mostra come due partner in crime, ma in realtà Misa
Amane è quanto di più simile a un’Harley Quinn giapponese, persa d’amore per il
suo uomo e che fa tutto ciò che lui le comandi. Ma analizzando bene il
carattere di Mia, si può notare che la sua personalità è molto più simile a
quella del Light originale di quanto sia quella del Light mostratoci nel film:
è lei a suggerire chi uccidere, è lei che è fermamente convinta di fare del
bene ed è sempre lei che mostra segni del “complesso di Dio” che nel manga è un
chiaro tratto del personaggio di Light.
Partiamo proprio dal “complesso di Dio” per parlare del
personaggio di Light. Il credersi superiore a chiunque altro, il salvatore dell’umanità,
è il tratto preponderante di Kira, che è fermamente convinto delle azioni che
sta compiendo perché sono in funzione di un’idea precisa: lui è un Dio e quindi
può permettersi di punire chiunque, e quest’idea ricorre per tutta l’opera e
non lo abbandona mai. Questo aspetto non è stato abbastanza approfondito dal
film, che l’ha accennato nella scena in cui lui illustra il significato di “Kira”
a Mia, ma che nella realtà dei fatti non ci viene mostrato neanche una volta.
Light Turner è un ragazzino insicuro, confuso, che riceve il quaderno della
morte dal dio Ryuk e comincia a usarlo senza rendersi effettivamente conto di
ciò che sta facendo e addirittura pentendosene in vari punti del film, ma non
volendo riconsegnare il quaderno a Ryuk perché “qualcuno potrebbe fare di
peggio” – insomma, scusate il francesismo, è un po’ un coglioncello. La realtà
è che Light Yagami è non solo un perfetto stronzo, ma anche un sociopatico in
piena regola, un freddo e meticoloso calcolatore che sta attento a ogni suo
passo pur di non essere sgamato perché deve continuare ciò che ha iniziato, lui
è Dio ed è perfettamente consapevole di ciò che fa e di avere tra le mani un
potere che lo rende superiore a chiunque altro sulla terra, persino a Ryuk e agli dei della morte stessi. Il gioco che fa con L è un gioco mentale, perché
capisce che colui che lo sta cercando è intelligente tanto quanto lui, è
esattamente come lui, solo dal lato opposto dello spettro.
L è un detective brillante, che ha risolto i casi più difficili
al mondo e che vede il caso di Kira come una sfida. È un sociopatico in piena
regola anche lui, è attento a ogni mossa che fa e studia ogni mossa che fanno
gli altri, mentre nel film ci viene fatto sembrare solo molto eccentrico, senza
un minimo di approfondimento psicologico. Capisce da subito che Light è Kira ed
ha addirittura un crollo psicologico dove urla, sbraita e si dimena davanti al
papà di Light nella speranza che capisca che sì, è suo figlio il cattivone che
stanno cercando – e ovviamente non viene creduto, insomma, perché dovrei
credere a uno che sembra un avanzo di manicomio? Il personaggio originale si
prendeva il tempo che gli serviva, giocava con la mente di Light come Light
giocava con la sua: Light e L sono due geni sociopatici con due idee diverse su
cosa è giusto e cosa è sbagliato, non un teenager confuso e un detective
nevrotico.
L’ultimo dei personaggi è Ryuk, il dio della morte che dà il
quaderno della morte a Light, che viene dipinto come il vero “cattivo” del
film, colui che spinge Light a uccidere e che lo porta alla pazzia; a Ryuk,
nell’opera originale, non può fregare di meno di ciò che fa Light. Nulla. Zero
proprio.
In conclusione, oltre ad aver stravolto la vera natura della
storia, il film prende anche una posizione molto codarda riguardo a L, che nel
manga e nell’anime Light riesce a uccidere a circa metà opera proseguendo per
un lungo periodo il suo operato da Kira senza alcun disturbo, a conferma del
fatto che la linea tra bene e male è estremamente volubile e sottile, mentre
nel film vive e si vendica su Light mettendo da parte tutti i propri principi.
Stilisticamente il film non spicca ma non è neanche male e
ho apprezzato lo strizzare l’occhio ai fan del manga con dettagli come la
postura di L e le mele di Ryuk, ma ciò non toglie che come adattamento, nel
complesso, è pessimo. Vi saluto con la scena del primo incontro tra Light e
Ryuk, un capolavoro di comicità involontario.
giovedì, agosto 10, 2017
You Get Me: per me è un no grande quanto una casa
8/10/2017 Unknown
Durante una masterclass di cinema a cui ho partecipato, un attore italiano ha pronunciato le seguenti parole: "la sceneggiatura è l'80% del film stesso. Se la sceneggiatura fa schifo, il film non è nulla." In poche parole, puoi avere la storia più bella del mondo, la regia e la fotografia più innovative, ma se la scrittura è pari a zero il tuo film farà, in una sola parola, cagare. Come dargli torto?
Questa piccola premessa serve a presentare You Get Me, un teen movie dai toni thriller, distribuito da Netflix e presente sulla piattaforma da qualche mese. La trama in soldoni: Tyler (Taylor John Smith, uno che avrà tipo quaranta anni ma fa la parte del diciassettenne) viene lasciato dalla ragazza e la sera stessa conosce Holly (Bella Thorne), con cui trascorre una notte di passione. Il giorno dopo si pente e torna dalla sua ragazza, ma presto ricomincia la scuola e qui ritrova Holly, che si è trasferita lì e che vuole riaverlo. Seguono varie cose da psicopatica, tra cui mandare in shock anafilattico un'amica della ragazza di Tyler (senza che nessuno faccia indagini o niente, in nome del realismo) e fingersi incinta, per non parlare del finale con rapimento a sorpresa.
La cosa che mi fa innervosire di più di questo film è che la trama, presa in sé, non è tanto male; di cult movie con ragazze cattive e un po' fuori di testa ce ne sono a decine, e funzionano tutti perfettamente. Il problema è che se hai una fotografia patinata, indie-ggiante, ricercata a tratti, praticamente quasi perfetta, e speri che mettendola su una sceneggiatura da film prodotto dalla ABC Family, come può essere Cyberbully, ti troverai magicamente un film decente per le mani... beh, non è così. Insomma questo film ha paura di osare, sembra che non ci si ricordi di essere su Netflix ma su una tv via cavo familiare qualsiasi.
Oltre alla sceneggiatura praticamente inesistente, c'è un evidente problema di interpretazione: il quarantenne sopracitato è monoespressivo per tutto il film, così come la sua ragazza. Bella Thorne, che io trovo una delle attrici giovani più belle in assoluto, non brilla di certo per qualità attoriali ma ha naturalmente una faccia cattiva e maliziosa che dovrebbe farla risultare perfetta per qualsiasi ruolo del genere, ma la scrittura è talmente debole che persino lei, che ha l'aria da psicopatica per natura, risulta ridicola a tratti.
Insomma, potevamo farne a meno.
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